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PLACCA ATEROSCLEROTICA E RISCHIO D’INFARTO

PLACCA ATEROSCLEROTICA E RISCHIO D’INFARTO
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Alcuni ricercatori stanno rivedendo la loro posizione riguardo i possibili rischi per il cuore dei depositi di placca aterosclerotica, sia quest’ultima “morbida” (soft) o “dura” (hard). I risultati di un recente studio condotto dai ricercatori dell’Intermountain Medical Center Heart Institute potrebbero costituire il “game-changer” per determinare chi potrebbe essere a rischio infarto. Secondo questo recente studio, presentato all’American College of Cardiology Scientific Sessions in Washington D.C., la nozione che la placca “soft” è più pericolosa relativamente al rischio d’infarto per il fatto che si rompe più facilmente dei depositi di calcio nelle arterie (placca dura), potrebbe essere sbagliata. Ricordiamo che per aterosclerosi s’intende l’accumulo della placca nelle arterie che ne causa il restringimento e l’indurimento. “Avevamo precedentemente pensato che fosse la placca morbida, carica di lipidi, maggiormente responsabile degli infarti essendo più soggetta a facile rottura, ma dai risultati della nostra nuova ricerca, sembrerebbe essere maggiormente associata ad eventi cardiovascolari avversi la placca calcificata” ha detto Brent Muhlestein, MD, uno degli autori dello studio e co-direttore del dipartimento di cardiologia dell’Intermountain Medical Center Heart Institute di Salt Lake City. In precedenza i ricercatori dell’Intermountain Medical Center Heart Institute avevano collaborato con gli scienziati della Johns Hopkins School of Medicine e degli Istituti Nazionali di Sanità per analizzare la composizione della placca in 224 pazienti diabetici, ma senza sintomatologia cardiaca. In quest’ultimo studio i ricercatori sono andati a vedere se il tipo e la composizione della placca aterosclerotica erano davvero state in grado di predire il rischio di un evento cardiaco, dopo che i pazienti sono stati seguiti per circa sette anni. Attraverso un’attenta valutazione quantitativa, è stata identificata la composizione della placca coronarica dei soggetti presi in esame mediante coronarografia TC. La placca è stata, dunque, classificata in placca morbida, calcificata, fibrosa e confrontata con il futuro rischio di angina instabile, infarto o morte. Inaspettatamente, i ricercatori hanno scoperto che una maggiore quantità di placca calcificata è predittivo di significativi eventi coronarici avversi, mentre non è stato ottenuto lo stesso risultato per la placca morbida. Il Dr. Muhlestein afferma che sono necessari ulteriori studi per legittimare questi risultati che potrebbero rappresentare un potenziale cambiamento di paradigma. Anche se un accumulo di calcio a livello coronarico non può essere eliminato, i medici possono trattare il paziente con le statine. Inoltre è stato visto che il calcio nelle coronarie non si accumula a meno che non ci sia la placca; questo significa che gli individui con accumulo di calcio coronarico hanno anche l’aterosclerosi. “La placca dura sembra essere piuttosto un indicatore di malattia, non un marker di rischio diventando, così, un fattore predittivo molto importante” ha detto il dottor Muhlestein. Il dottore aggiunge anche che non avere accumuli di calcio coronarico sembra costituire una garanzia contro gli infarti per circa 5 anni, anche con alti livelli di lipoproteine a bassa densità, più note come LDL o colesterolo cattivo. “La scoperta significherebbe che molte persone potrebbero evitare la terapia con statine, anche se hanno il colesterolo alto, mentre il punteggio di calcio coronarico consentirebbe di selezionare e trattare in modo molto più efficace i soggetti a rischio”. Attendiamo, dunque, ulteriori studi e conferme a riguardo.

Negli USA è abbastanza diffusa la pratica della terapia chelante endovenosa con EDTA per diminuire la concentrazione di calcio nella placca ateromasica. La terapia chelante con EDTA è comunque disponibile anche in Italia.