Vermi nematodi, moscerini della frutta, topi e altri animali da laboratorio vivono più a lungo e godono di miglior salute quando mangiano meno di quanto farebbero se avessero più cibo a disposizione. Anche i primati, tra cui l’uomo, potrebbero beneficiare delle carenze nutrizionali, il che spiega perché le ricerche in merito siano sempre più sovvenzionate.
Queste osservazioni pongono però un interrogativo: per quale ragione si sarebbe evoluto questo meccanismo? L’ipotesi più accreditata si basa su ciò che accade fisiologicamente durante i periodi di scarsità di cibo. Quando le condizioni di vita sono buone, la selezione naturale favorisce gli organismi che investono molta energia nella riproduzione. In tempi di ristrettezze, però, gli animali si riproducono meno e privilegiano l’uso di preziosi nutrienti per la riparazione e il riciclo delle cellule, in modo da sopravvivere fino alla fine della carestia e ricominciare a riprodursi.
Poiché la riparazione e il riciclo delle cellule sono processi altamente antinvecchiamento e anticancerogenici, si spiegherebbe perché animali di laboratorio sottoalimentati vivono più a lungo e sviluppano di rado patologie connesse alla vecchiaia come cancro e malattie cardiovascolari.
Margo Adler, biologa evoluzionista dell’Università di New South Wales in Australia, appoggia gli aspetti del metabolismo cellulare su cui si basa la teoria, ma non è così sicura della logica evolutiva. Secondo la Adler, la teoria prevalente si regge su una congettura: che la selezione naturale favorisca la deviazione dell’energia dalla riproduzione alla sopravvivenza perché gli animali avranno più prole nel lungo termine – ovvero sopravvivono e si riproducono. “Questa ipotesi è costantemente ripetuta in letteratura come se fosse vera, ma non ha molto senso in termini evolutivi” dichiara.
Il problema, sostiene la Adler, è che gli animali selvatici non hanno una vita lunga e protetta come i loro cugini nei laboratori. Al contrario, non sono minacciati solo dalla mancanza di cibo ma anche da predatori e patogeni, incidenti e intemperie. E devono affrontare anche i rischi fisiologici causati da una dieta ridotta, tra cui un sistema immunitario depresso, difficoltà di guarigione e una maggiore sensibilità al freddo. Ritardare la riproduzione finché le riserve di cibo non diventano più abbondanti per gli animali selvatici è quindi molto rischioso: la morte potrebbe essere dietro l’angolo. Meglio allora riprodursi subito.
La nuova ipotesi proposta dalla Adler è che durante un periodo di scarsità di cibo gli animali aumentino effettivamente la riparazione e il riciclo cellulare, ma allo scopo di riprodursi al massimo durante la carestia, non dopo. “Cercano di ricavare più che possono da una situazione difficile” per massimizzare la loro fitness riproduttiva nell’immediato. “Entrano in una modalità ad alta efficienza,” spiega la Adler, che ha pubblicato insieme al collega Russell Bonduriansky le sue osservazioni nel numero di “BioEssays” di marzo.
Altri ricercatori credono però che la teoria sia applicabile a specie che hanno una vita breve o per cui la riproduzione è a basso costo, come i moscerini o i topi, ma difficilmente ad animali con una fisiologia diversa. Per gli uccelli, o per altre specie di mammiferi, la quantità di energia necessaria al concepimento è tale da impedirlo durante un periodo di scarsità alimentare. Inoltre, alcune specie con una lunga vita (come l’uomo) in generale hanno anche maggiori probabilità di sopravvivere, perciò possono permettersi di aspettare che le risorse tornino disponibili prima di riprodursi.
La Adler vuole ora testare le sue ipotesi in natura, ma ammette che si tratta di una grande sfida. “Nessuno è mai stato in grado di studiare gli effetti di restrizioni alimentari su animali selvatici, perché è molto difficile manipolarne la dieta.” Forse questa nuova teoria non sarà inclusa nei libri di testo di biologia, ma potrebbe aiutare i ricercatori a trovare nuovi modi per prevenire le malattie connesse all’invecchiamento.
Le Scienze 19/04/2014