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Contro il Parkinson: più esercizio e meno farmaci

Contro il Parkinson: più esercizio e meno farmaci
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Muoversi, camminare, nuotare. Un programma personalizzato di esercizi e gli effetti si vedono. Prima di tutto nei sorrisi ritrovati, poi nella quotidianità dei malati, decisamente meno malati rispetto al momento di inizio della terapia. Giuseppe Frazzitta ha un rapporto speciale con i suoi pazienti, sofferenti di Parkinson: ha ideato un nuovo protocollo per aiutarli e curarli ed è ormai diventato una celebrità.
Direttore del dipartimento di riabilitazione dell’Ospedale Moriggia Pelascini di Gravedona, in provincia di Como, ha ora un problema e molti obiettivi. Il problema è gestire l’eccesso di richieste che arrivano da tutta Italia. Gli obiettivi sono quelli che gli indicano le sue ricerche, ora condensate in uno studio, appena apparso su «Neurorehabilitation and Neural repair», la rivista numero al mondo sulla riabilitazione.
Professore, che cosa avete ottenuto?
«Lo studio analizza il “follow-up” su 40 pazienti, seguiti per due anni. Il gruppo sottoposto al nostro protocollo di riabilitazione ha mostrato un trend di continuo miglioramento del quadro clinico, mentre le condizioni dell’altro gruppo, quello di controllo, sono rimaste invariate o sono peggiorate. E questo a fronte di un comportamento opposto per il trattamento farmacologico. Il nostro gruppo assumeva al termine del “follow up” circa un terzo della dose farmacologica rispetto al gruppo di controllo: 140 milligrammi di levodopa rispetto ai 350 dell’altro».

Che cosa significa in pratica «miglioramento clinico»?
«Che i pazienti sono diventati più autonomi, hanno sintomi meno intensi e quindi una qualità di vita migliore. L’abbiamo misurato con le “scale” standard utilizzate per valutare la progressione della malattia. Il concetto che emerge è chiaro: l’aumento del dosaggio farmacologico non migliora la situazione del malato, mentre, se si applica fin dall’inizio il nostro programma “Mirt”, acronimo di Multidisciplinar Intensive Rehabilitation Treatment, si sta meglio e si prendono meno medicine».
Come proseguirete le ricerche?
«Il prossimo obiettivo è seguire l’evoluzione del gruppo a quattro anni, ma anche capire meglio che cosa c’è alla base di questa straordinaria ripresa. E a questo proposito abbiamo pubblicato, sempre nel 2014, un altro studio, stavolta sul “Bdnf”, che sta per “Brain derived neurotrophic factor”, cioè “Fattore neurotrofico derivato dal cervello” o in termini più semplici “Fattore di crescita cerebrale”: abbiamo dimostrato che chi segue il nostro programma ha un miglioramento del 25% di questa sostanza che garantisce la plasticità del cervello».
Come si spiega un effetto così straordinario?
«Ipotizziamo che alla base ci sia una sorta di ricrescita neuronale ed è un’idea non soltanto nostra. Si tratta di un filone di ricerca – quello degli effetti di plasticità legati al movimento nelle malattie neurodegenerative – condiviso da molti team, in Europa, Usa e Israele, e che nei test sugli animali ha ottenuto grandi risultati: le cavie allenate sul tapis roulant conoscono una remissione dei sintomi. Nell’uomo, naturalmente, la situazione è più complessa».
Come funziona il protocollo «Mirt»?
«E’ un percorso personalizzato riconosciuto a livello mondiale. Prevede 30 giorni di ricovero, durante il quale ci si sottopone a sedute di movimento aerobico – quindi senza fatica – dalle tre alle cinque ore al giorno, dal lunedì al sabato: trattamenti con fisioterapisti e logopedisti e utilizzo di macchine robotizzate, oltre a una “terapia occupazionale” per migliorare l’autonomia nella vita quotidiana e nei casi di “Sindrome di Pisa”, per chi ha problemi di equilibrio, il training in piscina. È prevista anche una “valutazione neuropsicologica”, con la presenza di medici e psicologi, per educare alla malattia».
E al termine dei 30 giorni che cosa succede?
«Si torna a casa, con un programma individualizzato per eseguire, da soli, gli esercizi. Rivediamo poi i pazienti ogni sei mesi e li sottoponiamo a test di valutazione: così analizziamo in modo oggettivo gli effetti della riabilitazione».
Chi sono i vostri pazienti?
«Sono molto diversi. Da 28 a 89 anni. Hanno in genere situazioni complesse, come il “freezing” – la sindrome dei “piedi incollati” -, disturbi dell’equilibro e della postura, oltre a quelli legati ai movimenti involontari».
Quante persone avete trattato finora?
«Nei database ne abbiamo un migliaio».
Siete gli unici in Italia?
«Sì. Ma organizziamo corsi per fisioterapisti. Vogliamo che si diffonda il trattamento più corretto. Non abbiamo certo messo il copyright».
E all’estero?
«Ci sono molte realtà, come quella della capostipite, l’americana Becky Farley, a Tucson, in Arizona».

Come le è venuta l’idea di creare il «Mirt»?
«Un po’ alla volta. Il nostro è il lavoro di un artigiano. Ma non riesco a dimenticare l’espressione di sorpresa di un paziente: scoperti gli effetti del tapis roulant, non voleva più scendere!».

La Stampa 15/10/2014