OMEGA-3: un ingrediente naturale ancora sottovalutato
Il nome di questi composti deriva dalla posizione del primo doppio legame, iniziando il conteggio dal carbonio terminale (carbonio Ω o carbonio n). Contando dal carbonio Ω, il primo doppio legame che si incontra occupa il terzo rango, da cui il termine omega-3.
I principali acidi grassi del gruppo omega-3 sono:
- l’acido alfa-linolenico (18:3; ALA);
- l’acido eicosapentaenoico (20:5; EPA);
- l’acido docosaesaenoico (22:6; DHA).
I numeri tra parentesi stanno a indicare che questi tre acidi grassi hanno rispettivamente 3, 5 e 6 doppi legami nella loro catena composta da 18, 20 e 22 atomi di carbonio.
Gli acidi grassi omega-3 sono presenti nelle cellule del nostro organismo, dove contribuiscono in modo determinante alla fluidità delle membrane cellulari e, a livello sistemico, modulano la produzione di composti dotati di molteplici attività biologiche: ciò spiega i numerosi ruoli fisiologici di questi composti.
La produzione di questi acidi grassi (EPA e DHA) dipende dall’attività enzimatica delle desaturasi (delta-6 desaturasi) e delle elongasi sul loro precursore, cioè l’acido grasso essenziale alfa-linolenico.
Purtroppo la delta-6 saturasi spesso è poco disponibile per questa conversione a causa di una competizione tra omega-3 e omega-6 (che sono in quantità troppo elevata) e perché viene inibita da stress, infezioni virali ed età.
Ecco quindi che gli acidi grassi omega-3 a lunga catena (e in particolare l’acido eicosapentaenoico, o EPA, e l’acido docosaesaenoico, o DHA) devono essere di fatto ottenuti attraverso l’alimentazione o mediante integrazione.
L’uso di alimenti arricchiti in omega-3 permette tra l’altro di abbassare selettivamente il rapporto omega-6/omega-3 nella dieta, attualmente intorno a 10:1, 20:1 nella nostra società e che dovrebbe invece essere ricondotto, secondo le vedute più moderne, a circa 4:1, 2:1.
Questo squilibrio crea una maggiore formazione di prostaglandine di tipo 2, con azione infiammatoria, che possono essere alla base di gran parte delle malattie croniche di tipo degenerativo che affliggono l’uomo della società moderna.
Le fonti principali per l’assunzione di omega-3 come EPA e DHA restano i prodotti ittici. Generalmente gli omega-3 si possono trovare in alimenti comuni, come il pesce, meglio se di acqua marina, olio di pesce, olio di krill, crostacei.
Attualmente, l’unica significativa fonte vegana di DHA sono le microalghe (fitoplancton) e la sua integrazione è denominata “olio di alghe”. Il componente DHA è equivalente a quello derivato dai pesci e anche la sicurezza d’uso è simile.
Altre fonti vegetali di acidi grassi omega-3tendono ad avere la struttura del precursore acido alfa-linolenico (ALA) e significative fonti vegetali di ALA includono l’olio di semi di canapa, le noci e i semi di lino, mentre integratori con una quantità più piccola ALA includono spirulina e clorella.
Purtroppo la classica dieta occidentale (europea o americana) tende ad avere un rapporto altamente favorevole agli acidi grassi omega-6 (si pensa si abbia un rapporto tra omega-6:3 rispettivamente di 15-20:1 circa).
In Giappone si pensa che il rapporto sia di circa 4:1, mentre in India varia molto tra le aree rurali (5-6:1) e quelle urbane (38-50:1).
Se prendessimo come riferimento la dieta del paleolitico, si potrebbe stimare un rapporto di 1:1. Sembra che anche il grasso degli animali selvatici abbia un rapporto simile, mentre quello degli animali di allevamento ha maggiori quantità di omega-6 rispetto ai livelli di omega-3.
Alcune delle molteplici proprietà
Gli effetti biologici degli omega-3 sull’organismo sono molteplici, ma principalmente si esplicano su tre sistemi: cervello, apparato cardiocircolatorio e sistema immunitario.
Non è difficile capire l’importanza degli omega-3 nel funzionamento del sistema nervoso centrale se ci rendiamo conto che almeno il 30% del cervello umano è costituito da DHA.
In effetti il latte materno è una fonte molto ricca di DHA e studi effettuati sui bambini allattati con latti artificiali che non contenevano DHA (come tutti i latti artificiali), hanno dimostrato che questi soggetti potevano avere un rischio aumentato del doppio di contrarre disfunzioni neurologiche più tardi negli anni.
Esistono delle evidenze sperimentali che gli omega-3 possono avere un’influenza positiva sulla resistenza all’insulina e quindi esercitare una sorta di prevenzione nei confronti dell’insorgenza del diabete (Akinkuolie AO, et al.)(1).
Per quanto riguarda gli effetti sul sistema cardiovascolare, è noto che gli acidi grassi omega- 3 esercitano un’efficace azione antiaggregante piastrinica, controllano i lipidi plasmatici (soprattutto i trigliceridi) (Egert S, et al.)(2) e la pressione arteriosa.
Di particolare interesse appaiono anche le più recenti informazioni sugli effetti antiaritmici degli acidi grassi omega-3, che possono spiegare l’azione protettiva di questi composti nei riguardi della morte cardiaca improvvisa, frequentemente causata da aritmie ventricolari gravi (James A Reiffel, Arline McDonald)(3), (Narcis Tribulova, et al.,)(4).
Di particolare importanza risulta anche la modulazione delle risposte biologiche da parte degli omega-3, intervenendo sull’attivazione e sul controllo di specifici messaggeri biochimici, gli eicosanoidi.
Gli eicosanoidi sono derivati dell’acido arachidonico, un acido grasso a 20 atomi di carbonio; sono considerati “superormoni” e hanno principalmente funzione di segnalazione.
Nella sottocategoria degli ecosanoidi troviamo anche le resolvine, le protectine e le prostaglandine, che controllano ogni aspetto della fisiologia umana agendo a livello cellulare.
Le resolvine sono potenti molecole di segnalazione coinvolte nel processo infiammatorio,
derivate da acidi grassi omega-3, e hanno capacità di “risoluzione” del processo infiammatorio (Juliette Giacobbe, et al.)(5).
Infine, la migliorata fluidità di membrana (soprattutto dei globuli rossi) e la produzione di prostaglandine di tipo antinfiammatorio e a carattere vasodilatatore sono interessanti per gli atleti, in quanto favoriscono il trasporto di ossigeno e nutrienti verso i tessuti muscolari durante l’esercizio fisico.
Un rapido sguardo alle evidenze scientifiche
Non solo le ricerche scientifiche confermano un nesso tra l’assunzione di olio di pesce e la salute, ma anche le esperienze pratiche e la storia, come nel caso dell’occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale, in cui i norvegesi, costretti a ritornare alla loro dieta tradizionale a base di pesce, fagioli e cereali integrali, data la scarsa disponibilità di cibi industriali, registrarono un calo del 10% di patologie quali schizofrenia, malattie cardiovascolari e cancro (Robsahm TE & Tretli S)(6).
Dopo la guerra, i norvegesi ritornarono a consumare cibi commerciali e lavorati industrialmente e il livello delle suddette malattie tornò subito ai valori precedenti.
Se viene dato olio di pesce a persone che praticano costantemente esercizio fisico, l’effetto sulla sensibilità insulinemica sembra essere additivo.
Altri studi suggeriscono un miglioramento della sensibilità all’insulina nelle popolazioni che hanno tipicamente un rapporto omega-3:6 squilibrato verso questi ultimi, come per esempio gli anziani, chi è affetto da sindrome metabolica, chi non è in salute e negli obesi.
Il meccanismo legato all’aumento della sensibilità all’insulina può essere collegato alla preservazione della fluidità cellulare, soprattutto riequilibrando il rapporto omega-6:3 nelle membrane cellulari, come dimostra uno studio di Haugaard et al.(7) che correla il contenuto dei PUFA nella membrana cellulare con la sensibilità all’insulina.
Una cosa interessante è che, in chi sviluppa resistenza all’insulina da elevato consumo di fruttosio, l’olio di pesce purtroppo sembra essere inefficace per alleviare la resistenza all’insulina (anche se riduce i valori di trigliceridi).
Ciò avvalora l’idea che gli effetti insulino-sensibilizzanti prodotti dall’integrazione di olio di pesce siano a livello della cellula, mentre il fruttosio provoca resistenza all’insulina a livello del fegato e del pancreas.
Un altro possibile meccanismo è quello di contrasto verso un eccesso di acidi grassi saturi che possono provocare insulino-resistenza.
Quali sono i dosaggi di assunzione
La dose consigliata a scopo preventivo per un individuo sano, ma anche con un pregresso infarto del miocardio, è di 1 g al giorno; quella per esercitare un effetto antinfiammatorio e antidolorifico è di 2-3 g, mentre quella per avere un effetto performante sull’attività fisica è di 3-4 g. Infine, la dose per ottenere un effetto dimagrante è superiore a 5 g.
Riferimenti Bibliografici
(1) Akinkuolie AO, et al. Omega-3 polyunsaturated fatty acid and insulin sensitivity: a meta-analysis of randomized controlled trials. Clin Nutr. Dec;30(6):702-7
(2) Egert S, et al. Dietary alpha-linolenic acid, EPA, and DHA have differential effects on LDL fatty acid composition but similar effects on serum lipid profiles in normolipidemic humans. J Nutr. 2009 May;139(5):861-8
(3) James A Reiffel, Arline McDonald. Antiarrhythmic effects of omega-3 fatty acids. Am J Cardiol. 2006 Aug 21;98(4A):50i-60i
(4) Narcis Tribulova, et al., Omega-3 Index and Anti-Arrhythmic Potential of Omega-3 PUFAs. Nutrients. 2017 Nov; 9(11): 1191.
(5) Juliette Giacobbe, et al., The Anti-Inflammatory Role of Omega-3 Polyunsaturated Fatty Acids Metabolites in Pre-Clinical Models of Psychiatric, Neurodegenerative, and Neurological Disorders. Front Psychiatry. 2020; 11: 122
(6) Robsahm TE & Tretli S. Breast cancer incidence in food- vs non-food-producing areas in Norway: possible beneficial effects of World War II. BJC volume 86, pages 362–366 (2002)
(7) Haugaard SB, et al. Dietary intervention increases n-3 long-chain polyunsaturated fatty acids in skeletal muscle membrane phospholipids of obese subjects. Implications for insulin sensitivity. Clin Endocrinol (Oxf). 2006 Feb;64(2):169-78
Pubblicato su NUTRA HORIZONS