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INTERVISTA A MASSIMO SPATTINI (di Enrico Veronese)

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Sportman & Fitness – aprile 1996

Il personaggio che vado ad intervistare non ha bisogno di presentazioni. E’ stato senza dubbio ed è ancora il riferimento, il modello per un’intera fascia di body­ builders, cioè di tutti coloro che vedono ancora nel culturismo la possibilità di uscire dal ghetto. Massimo, laureato in Medicina con specializzazione nello sport, è stato una decina di anni fa uno dei pionieri che hanno costituito un’eccezione alla stereotipata immagine del body builder. Ricordo soprattutto ai più giovani che come atleta ha vinto in Italia praticamente tutto (nella cat. max) e probabilmente in altro contesto avrebbe potuto farlo anche all’estero. Ma quello che ha sempre contraddistinto questo ecceziona­le atleta, oltre i ragguardevoli risultati agonistici e la notevole carica umana, è stata la sua disponibilità ad essere il polo di aggregazione per tutti quegli atleti che volevano e vogliono vivere la disciplina intelligentemente, salvaguardando la salute e l’immagine.

La sua grande qualità è stata quella di avere capito e soprat­tutto di aver cercato di fare capi­re che senza un adeguato approfondimento scientifico, quindi senza conoscenze in termini di tecniche di allenamento ed ali­mentazione, non si sarebbe potuto formare nessun campione e che nessun tipo di farmaco avrebbe mai potuto sostituirsi a queste essenziali conoscenze.

Racconta la tua carriera come atleta

Ho iniziato ad allenarmi coi pesi nel ’75 e fu subito amore. Già da un anno prima avevo cercato di potenziare il mio esile fisico (alt. 180, peso 60 kg, bicipite 29, coscia 51, torace poco più di 90) con esercizi isometrici tratti da una vecchia enciclopedia e diventando un fanatico delle flessioni a terra (ero arrivato a farne 150 di seguito), cosa che forse creò la base per il facile sviluppo dei miei pettorali; ma fu  solo quando un mio amico tornò dalle vacanze estive con una scheda di 10 esercizi coi pesi datagli da un ragazzo che aveva trasformato il suo fisico dall’estate precedente, che iniziai lo sport del ferro con un paio di manubri e un bilanciere fatti fare da un fabbro. Ci allenavamo in una cantina di 2 metri per 3; le distensioni per i pettorali le effettuavamo sdraiati su un cartone per terra facendoci poi rotolare il bilanciere sopra la testa; per le trazioni alla sbarra ci attaccavamo ad una tubatura delI’acqua che attraversava il corridoio della cantina. Il ricordo di quei tempi è vivo in me e acquista ora il sapore di tempi mitici come forse tante volte succede per ricordi legati a quell’età. Da allora, ripeto, fu subito amore, le sensazioni che mi dava il “pump” e i miglioramenti del mio fisico si impossessarono completamente di me. Progressivamente abbandonai gli altri sport che pur praticavo con successo: campione provinciale di tennis, buon giocatore di calcio, discreto sciatore, per dedicarmi esclusivamente al body building. Ormai il tarlo mi aveva corroso e mi rendevo conto che avrei consacrato la mia vita a quello sport. E il rapporto divenne odio-amore, l’amore di sempre e l’odio per i risultati che non arrivavano come avrei voluto. Mi ricordo bene le pulsioni di allora: il fine non era solo estetico, ma era per me come una sfida, mi sentivo come l’ultimo eroe romantico, come un alpinista che scala una montagna; la sfida era contro la natura stessa che mi aveva dato un fisico limitato, la mia volontà e la mia ragione mi avrebbero dato un corpo senza limiti.Di una cosa mi resi presto conto: dell’importanza della conoscenza della fisiologia del corpo umano e delle valenze dell’alimentazione per ottenere dei risultati. Decisi allora di iscrivermi a Medicina. Quando un professore all’ultimo anno di liceo mi chiese quali erano i miei obiettivi, dissi: «Lau­rearmi in Medicina, aprire una palestra e diventare campione italiano di Bodybuilding». Nell’82 aprii la palestra New Center Gym, nell’85 mi laureai, nell’86 vinsi i campionati italiani FIACF nei pesi massimi. Poi vennero altre palestre New Center Gym, le specialità in Medicina dello Sport e quella in Scienza della Alimentazione, e la vittoria nell’88 delle selezioni per i Mondiali.

Non pensi che nell’ambito della tua carriera agonistica la tua laurea (intesa come professione) ti abbia avvantaggiato prima e svantaggiato poi?

Dal punto di vista agonistico i miei studi di medicina sono stati senza dubbio fondamentali per i risultati che ho avuto, non appartenendo a quella categoria di persone che crescono solo a guar­dare i pesi; mi hanno permesso di essere sempre all’avanguardia e di acquisire facilmente cono­scenze che solo poi divenivano patrimonio della cultura scientifica del Bodybuilding. Mi ricordo quando mi preparai per la mia prima gara: i campionati regionali nell’81. Avevo letto di diete pre-contest in alcune riviste del settore, avevo parlato con Curtarelli di Parma, allora già affermato campione, il quale alla domanda “quante calorie assumi sotto gara” mi rispose “non conto le calorie, conto i polli”: allora imperava la cosiddetta dieta ‘carne e acqua’, mai io avevo letto in testi di biochimica che il cervello e altre strutture sono in grado di utilizzare come combustibile solo il glucosio e così anche il muscolo durante lo sforzo anaerobico, e tale era il bodybuilding; avevo letto che se non si davano sufficienti zuccheri all’organismo questi se li doveva costruire tramite un faticoso meccanismo chiamato “neoglucogenesi” che aveva la brutta abitudine di trasformare soprattutto le proteine dei muscoli in zuccheri. Mi sembrava quindi una dieta suicida quella “carne e acqua” ed io seguii invece una dieta equilibrata con pochi grassi e moderatamente iperproteica. Il risultato fu che vinsi quella gara soprattutto in virtù di una migliore definizione e qualità muscolare. E gli esempi potrebbero continuare, ma se da un lato le mie conoscenze mi facilitarono, dall’altro i famosi studi di medicina furono senz’ altro un ostacolo alle mie velleità agonistiche; ogni esame era un po’ come un influenza; mi ritrovavo con qualche chilo di meno. Non a caso i migliori risultati li ottenni subito dopo la laurea, quando cioè mi potei dedicare più serenamente alle preparazioni per competizioni agonistiche. La laurea poi divenne di nuovo un ostacolo per la mia carriera agonistica in quanto, avendo rag­giunto i traguardi agonistici suddetti entro il 30° anno di età, così come mi ero prefisso, a quel punto dovetti prendere una decisione, o dedicarmi al 100% alla carriera agonistica nel tentativo di raggiungere i più ambiti traguardi internazionali o intraprendere in senso proprio e sviluppare le mia professione medica. In quel periodo il non facile rapporto con i vertici della Federazione IFBB, una politica denigratoria nei miei confronti, e un consenso non particolarmente forte dell’opinione pubblica e dei mass-media (vedi periodo post Ben Johnson) verso il bodybuilding mi fecero propendere per la seconda scelta. Fu la scelta giusta? Forse fu saggia, ma il cuore piange ancora al ricordo e forse per il rimpianto di non averla scalata tutta quella montagna.

Vuoi fare parallelo tra ‘IFBB attuale e quella che ti la visto come protagonista qualche anno fa?

Personalmente ritengo di aver gareggiato negli anni del boom della cultura fisica, e della IFBB in particolare, cioè gli anni ’80. Era senza dubbio molto bello gareggiare in palazzetti dello sport gremiti di pubblico che seguiva le competizioni con un calore che definirei “calcistico”. All’ultima gara della IFBB a cui ho assistito nel novembre 1995 saranno state presenti poco più di un centinaio di persone e l’atmosfera era più che spenta. Gli under 21, tra tutte le categorie, erano una mezza dozzina, e questo è sintomatico: perché se non ci sono i giovani vuol dire che è uno sport agonizzante. I fattori per questa crisi sono molteplici e non starò qui ad analizzarli, ma se devo esprimere un mio parere tra la FIACF di allora e la IFBB di oggi, potrei benissimo sintetizzare con un luogo comune: “dalla padella alla brace”. Ho sempre criticato l’operato dell’allora presidente della FIACF, perché ritenevo che attuasse una politica che non favorisse il pieno sviluppo del nostro Sport, e la mia critica era nell’ottica di una possibile comprensione e stimolo ad evolversi. Ora non vedo più nemmeno questa possibilità mancando, a mio parere, a livello dirigenziale le capacità di comprensione e quindi di comunicazione.

Secondo te cos’è cambiato nella mentalità degli atleti negli ultimi 10 anni?

Generalizzare è sempre sbagliato, però è indubbio che i livelli di sviluppo muscolare ormai rag­giunto hanno portato alla cultura del “tutto subito” e questo di certo non favorisce lo sviluppo di una mentalità abituata a dare comun­que il massimo dell’impegno anche per ottenere il minimo, cosa che ritengo fondamentale per fare quella famosa ripetizione in più che fa la differenza tra il campione e la massa di quelli che sollevano i pesi in palestra.

Parlaci dei tuoi rapporti con i tuoi avversari dell’epoca e se puoi racconta qualche aneddoto.

Con i miei avversari ho sempre avuto un rapporto di rispetto e amicizia. Fra tutti, quelli coi quali c’è stata più rivalità sono stati Curtarelli e Bonaccorsi. Il primo perché era sempre stato per me il “campione” da battere: di Parma anche lui, stessa età, avevamo cominciato ad allenarci nello stesso periodo, solo che lui partiva da una base strutturale enormemente superiore alla mia: a 16 anni era un ragazzone di 78 kg con 36 di braccio e 60 di coscia ed il resto in proporzione; dotato geneticamente rispose subito all’allenamento e in poco tempo divenne il migliore peso massimo in Italia. Batterlo per me significava un po’ come la vittoria della “ragione” sulla natura. Bonaccorsi invece era l’uomo nuovo, il talento genetico, l’unico, si diceva, che strutturalmente e muscolarmente avrebbe potuto competere con gli americani; mi aveva battuto precedentemente alla selezione per gli Europei e questo non l’avevo digerito. A Parma, in occasione delle selezioni per i Mondiali, data la mia struttura scheletrica abbastanza minuta ed il peso di conseguenza non eccessivo avrei potuto gareggiare nei medio-massimi, dove non avrei trovato avversari in grado di impensierirmi; ma avevo sempre gareggiato nei massimi. I miei avversari erano lì ed era lì che dovevo dimostrare il mio valore. Vinsi quella gara, Curtarelli si classificò 2° e Bonaccorsi 3°. Rimasi comunque amico con entrambi, tanto è vero che dopo il mio ritiro dalle competizioni Bonaccorsi si fece seguire da me per la sua preparazione per le competizioni professionistiche. Con Curtarelli, un paio d’anni dopo feci addirittura una bellissima vacanza in California e Hawaii, all’insegna di “muscoli e spiaggia”; lo frequento tutt’ora, ogni tanto usciamo a cena con gli altri ex di Parma: i fratelli Zambelli, Caleffi, ecc….

Che cosa ti piace di più nel nostro ambiente e che cosa ti piace meno?

Quello che mi piace meno dell’ambiente del Bodybuilding sono certe manifestazioni esteriori di eccessivo esibizionismo: non mi piacciono le tre felpe imbottite l’una sull’altra né il torso nudo fuori luogo, ma dell’ambiente mi piace l’entusiasmo, la passione, la dedizione quasi eroica necessaria per preparare una competizione di bodybuilding. Quasi tutte le mie amicizie le ho sviluppate nell’ambiente del Bodybuilding, ovviamente mi sono trovato di più con persone a me affini per stile e comportamento.

Che cosa è cambiato negli ultimi 10 anni a livello tecnico scientifico nel B.B.?

Penso che il bodybuilding ormai possa ricevere dalla ricerca scientifica un numero così grande di informazioni che riguardano le regolazioni dei metabolismi fisiologici in chiave anabolica da poter diventare ormai uno sport veramente scientifico, tenendo però ben presente le variabili individuali che sono altrettanto importanti come le regole generali. Il futuro prossimo è quindi “approccio scientifico corretto, indagine e programmazione individuale”. Purtroppo, nel nostro ambiente c’è ancora molto ‘pressapochismo’ e tante cose si fanno per sentito dire. Documentarsi continuamente è oneroso, è più semplice alzare il dosaggio.

A dotto’ ma ne è valsa la pena?

Certo, è stata una bellissima avventura e non è nemmeno detto che sia finita!