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“LONG COVID” – LA LUNGA CODA DEI SINTOMI

“LONG COVID” – LA LUNGA CODA DEI SINTOMI
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Nonostante i media mostrino costantemente una situazione molto grave, la maggior parte di coloro che hanno contratto l’infezione da coronavirus SARS-CoV-2, che sfocia nel COVID-19, non hanno riportato che sintomi tutto sommato abbastanza modesti e di breve durata.

Tuttavia si sta scoprendo ora che molte persone manifestano tutta una serie di sintomi più o meno importanti, anche parecchio tempo dopo l’inizio dell’infezione.

Per molti pazienti, compresi i giovani che non hanno mai richiesto il ricovero ospedaliero, la Covid-19 ha un secondo atto che può essere più o meno sfumato o devastante.

Ciò che sorprende i medici è che molti di questi casi coinvolgono persone i cui casi originali non erano i più gravi, minando l’ipotesi secondo cui i pazienti con Covid-19 lieve si riprendono entro due settimane.

In ottobre, il National Institutes of Health ha aggiunto una descrizione di tali casi alle sue linee guida per il trattamento del Covid-19, dicendo che i medici stavano segnalando sintomi a lungo termine e disabilità legate a Covid-19 in persone con malattie più lievi.

Questa coda che perdura dopo la malattia, è stata denominata appunto “Long COVID” (sintomi persistenti tre mesi dopo l’infezione).

Gruppi di ricercatori esteri stanno ancora raccogliendo i dati e monitorando una serie di persone che si sono prestate a indagini per comprendere meglio di cosa esattamente si tratta, per cercare di capire come diagnosticarlo e, soprattutto, come intervenire con eventuali trattamenti riabilitativi o cure mediche.

Ad oggi, si è scoperto che abbiamo di fronte una ampia variabilità di sintomi sfumati, che vanno da una sensazione di fame d’aria, affanno, stanchezza, mal di testa e (questo abbastanza noto) di anosmia ossia la perdita, per lo più temporanea, dell’olfatto e del gusto.

In generale, un gran numero di pazienti ricoverati in ospedale a causa del COVID-19, viene dimesso senza alcuna valutazione nel tempo del loro grado di recupero, sia fisico che mentale.

Uno studio basato su 384 pazienti (età media 59,9 anni; 62% maschi) ricoverati inizialmente in ospedale per COVID-19 ha prodotto, a seguito di un controllo eseguito un paio di mesi dopo le dimissioni, le seguenti statistiche: il 53% ha riportato mancanza di respiro persistente, il 34% tosse costante e ben il 69% una sensibile stanchezza.

Il 14,6% aveva depressione. Il 38% delle radiografie toraciche sono rimaste anomale con il 9% che hanno mostrato deterioramento.

Un altro studio preliminare che esaminava soprattutto i pazienti Covid non ospedalizzati ha rilevato che circa il 25% aveva ancora almeno un sintomo dopo 90 giorni.

Uno studio europeo ha rilevato che circa un terzo dei 1.837 pazienti non ospedalizzati ha riferito di aver bisogno ancora di un’assistenza circa tre mesi dopo l’inizio dei sintomi.

Tramite un’applicazione britannica per smartphone, l’app COVID Symptom Study, ove chi si era iscritto auto-riportava tutta una serie di dati, si è scoperto che tra coloro che manifestavano sintomi riconducibili al COVID-19, il 13% li aveva ancora dopo quasi un mese e il 4% addirittura dopo quasi due mesi.

Se teniamo presente che chi è portato ad utilizzare questa app solitamente è una persona particolarmente attenta alla sua salute e mediamente tende ad avere maggior riguardo a mantenersi attivo, e quindi non rientrerebbe tra le persone maggiormente vulnerabili, non dobbiamo stupirci di come le persone in politerapia, con malattie croniche, più fragili come gli anziani o gli obesi ma anche le donne, siano più a rischio di essere soggetti alle insidie del “Long COVID”.

Altri dati di una ricerca (in attesa di revisione), fanno presupporre che SARS-CoV-2 potrebbe inoltre avere un impatto a lungo termine sugli organi delle persone.

Il profilo di coloro che sono stati impattati in questo studio è tuttavia diverso dai precedenti utilizzatori dell’app.

Qui, in breve riportiamo alcuni dati:

  • Tra aprile e settembre 2020, 201 individui (età media 44 anni, 70% donne, 87% bianchi, 31% operatori sanitari) hanno completato le valutazioni a seguito dell’infezione da SARS-CoV-2 (mediana 140, IQR 105-160 giorni dopo i sintomi iniziali).
  • La prevalenza di condizioni preesistenti (obesità: 20%, ipertensione: 6%; diabete: 2%; malattie cardiache: 4%) era basso e solo il 18% degli individui era stato ricoverato in ospedale con COVID-19. Affaticamento (98%), dolori muscolari (88%), mancanza di respiro (87%) e mal di testa (83%) erano i sintomi più frequentemente segnalati.
  • Vi sono state prove di lieve compromissione degli organi: nel cuore (32%), nei polmoni (33%), nei reni (12%), nel fegato (10%), nel pancreas (17%) e nella milza (6%) ed è stata significativamente associata al rischio di precedente ricovero per COVID-19.

Riassumendo gli ulteriori dati, questo ci mostra che, in una popolazione relativamente giovane e a basso rischio, con sintomi in corso, quasi il 70% degli individui ha una compromissione in uno o più organi quattro mesi dopo i sintomi iniziali dell’infezione da SARS-CoV-2.

Ci sono più motivazioni per cui le persone possono manifestare sintomi mesi dopo una malattia virale e durante una pandemia.

Tuttavia arrivare a capire esattamente ciò che sta accadendo all’interno delle persone non sarà così facile per tutti.

Una delle principali spiegazioni per i sintomi a lungo termine è che l’attività del sistema immunitario e la conseguente infiammazione continuano a colpire gli organi o il sistema nervoso anche dopo la scomparsa del virus – hanno detto i ricercatori.

Alcune delle prove più convincenti per la teoria dell’infiammazione provengono dai pazienti di Covid-19 con segni di infiammazione cardiaca e lesioni mesi dopo la malattia.

Uno studio che ha esaminato 100 pazienti di Covid-19 due mesi dopo essersi ammalati ha scoperto che 78 avevano risultati anomali sulla risonanza magnetica cardiaca, mentre 60 avevano risonanze magnetiche cardiache che indicavano un’infiammazione del muscolo cardiaco.

Lo studio ha incluso pazienti ospedalizzati, non ospedalizzati e asintomatici.

Quando i sintomi riportano ad un organo specifico, l’indagine può essere relativamente semplice.

Si può esaminare il flusso di impulsi elettrici del cuore se qualcuno soffre di tachicardia e fare una prova da sforzo.

Oppure si può valutare la funzionalità polmonare se siamo in presenza di difficoltà respiratorie come sintomo predominante.

Per determinare se la funzionalità renale è parzialmente compromessa, specifici valori nel plasma sanguigno vengono confrontati con quelli nelle urine per valutare l’efficienza e lo stato dei reni.

Non così semplice da esplorare è invece un sintomo generico e sfumato come quello della stanchezza.

Un altro recente studio su larga scala ha dimostrato che questo sintomo è comune dopo COVID-19 e che si verifica in più della metà dei casi, e questo non sembra correlato alla gravità della malattia.

Qui i test hanno mostrato che le persone esaminate non avevano livelli elevati di infiammazione, suggerendo che la loro stanchezza non era causata da un’infezione persistente o dal loro sistema immunitario che rimaneva attivato.

I fattori di rischio per i sintomi di lunga durata in questo studio includevano l’essere donne (in linea con il COVID Symptom Study) e, curiosamente, avere una precedente diagnosi di ansia e depressione.

Mentre gli uomini sono a maggior rischio di infezioni gravi e acute, le donne sembrano essere più colpite dal “Long COVID” e questo potrebbe essere legato alla predominanza estrogenica, oppure alle fluttuazioni ormonali, infatti il recettore ACE2 che SARS-CoV-2 utilizza per infettare il corpo è presente non solo sulla superficie delle cellule respiratorie, ma anche sulle cellule di molti organi che producono ormoni, tra cui la tiroide, le ovaie e le ghiandole surrenali.

Alcuni sintomi di “Long COVID” sono similari ai sintomi della menopausa e la terapia ormonale sostitutiva è stata proposta come trattamento per ridurre l’impatto dei sintomi. Tuttavia, studi clinici in tal senso saranno essenziali per determinare se questo approccio è sia sicuro che efficace.

Concludendo, risulta che i sintomi a lungo termine dopo COVID-19 sono comuni ed eterogenei e che la ricerca sulle cause e sui trattamenti del “Long COVID” dovrà essere portata avanti per stabilire un protocollo di riabilitazione, col monitoraggio dell’evoluzione dei segnali di sofferenza.

Fonti: